Ludovica Serafini e Roberto Palomba, dopo gli studi a Roma, fondano nel 1994 lo studio Palomba Serafini Associati. Architetti e designers, essi rappresentano la coppia d’oro del design made in Italy. Lo studio ha sede a Milano, in un luminoso loft nel cuore dei Navigli. Progettano architetture ed esposizioni in tutto il mondo e collaborano con alcuni dei marchi più affermati del mondo dell’industrial design come: Antolini, Bisazza, Boffi, Brix, Cappellini, Dornbracht, Driade, Elica, Elmar, Exteta, Fiam, Flaminia, Foscarini, KitchenAid, Kos, Laufen, Lema, Plank, Poltrona Frau, Rapsel, Redaelli, Salviati, Sawaya & Moroni, Samsung, Schiffini, Tubes, Valli&Valli, Viccarbe, When Objects Work, Zanotta, Zucchetti.
Hanno ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali come il Compasso D’Oro, l’Elle Decoration International Design Award, il Red Dot, il Design Plus, il Good Design Award, il German Design Award. Questi riconoscimenti altro non fanno che attestare e avvalorare la qualità e l’originalità del loro lavoro. Affiancano alla loro attività progettuale, una forte propensione alle attività culturali che li rende professionisti a tutto tondo. Il segreto del loro successo è dato dalla capacità di affiancare ad una vasta conoscenza delle diverse sfaccettature del design, un’attenta analisi dei bisogni della società contemporanea e quindi dell’utente. Il risultato è un prodotto sempre originale, distante dall’uniformità del contemporaneo e caratterizzato da un’eleganza senza tempo. Poco tempo fa un nuovo mondo si è presentato di fronte ai due architetti, il mondo della nautica. Per la prima volta la coppia di progettisti si è cimentata del progetto di un grande yacht per Benetti, la barca vista come “oggetto di design” si è trasformata da sfida e problematica progettuale ad un’ottima occasione per accrescere il loro talento e arricchire il mondo dell’industrial-design. Lo scorso settembre, in occasione del Monaco Yacht Show 2012, Benetti ha lanciato il progetto Benetti Design Innovation. Un’iniziativa che ha coinvolto designers di fama internazionale con lo scopo di creare nuovi concept per imbarcazioni custom dai 50 a oltre 90 metri. Tra i 27 originali ed interessanti yachts presentati, quello progettato da Ludovica+Roberto Palomba interpreta l’unicità del marchio Benetti con uno sguardo rivolto al futuro. Lo yacht Jolly Roger appunto, è uno tra i progetti più innovativi, un 65 mt con un carattere dinamico ed elegante. I ponti sono sorretti da un sistema di ‘nervature’ che alleggeriscono il volume e permettono l’inserimento di ampie vetrate, reinterpretando l’elemento delle potenze tipico di Benetti. Il lungo ponte a prua diventa spazio da vivere e luogo di aggregazione. Il progetto da nautico diventa architettonico creando una serie di relazioni tra gli elementi naturali che circondano la barca e i materiali artificiali da cui è composta: come le vetrate, il grande ponte, la spiaggetta, la copertura mobile sul soffitto della cabina dell’armatore, ecc.
Voi lavorate sia per famose aziende (Zanotta, Elica, Tectona, Zucchetti ecc) sia per privati; quali differenze intercorrono? Qual’è la relazione più stimolante delle due?
Tutti i progetti e i lavori sono stimolanti, perché li realizziamo collaborando con persone valide, diventando così concreti e di conseguenza affascinanti. Il principio generatore è fondamentalmente lo stesso, sia che lavoriamo per aziende che per privati. Conoscere interlocutori differenti è sempre stimolante.
La nautica si pone un po’ al centro delle due relazioni, perchè si ha a che fare sia con il cantiere (azienda) sia con l’armatore (privato). Lo trovate per questa sua caratteristica emozionante e ricco di potenzialità? Cosa pensate del progetto nautico?
La barca è un’architettura, e allo stesso tempo anche un oggetto di design. Abbiamo realizzato Jolly Roger utilizzando programmi che usiamo anche per il design; mentre il concept generale (la scelta dei materiali, la suddivisione degli spazi etc, è stato affrontato come un progetto architettonico. La barca, per noi, è come se fosse un’architettura senza radici; è un oggetto, e quindi lo abbiamo progettato seguendo le stesse linee guida.
Come vi siete avvicinati al mondo della nautica?
Volevamo unire il concetto di oggetto a quello dello spostamento, del movimento. Quindi avevamo due possibilità: progettare una barca o un aereo… Per il momento abbiamo scelto la “l’acqua”. Per il “cielo” chissà, rimane un grande sogno.
Quali sono per voi i limiti e le potenzialità del progetto nautico?
Una potenzialità enorme sono le tecnologie di progettazione a disposizione della creatività. Un limite potrebbe essere la dimensione dell’oggetto in sé, anche se rimane una sua caratteristica intrinseca.
Durante il convegno “Design: la barca come progetto di riqualificazione della piccola dimensione” tenutosi durante lo scorso Seatec di Carrara, l’architetto Serafini ha spiegato come lo scafo sia uno spazio vuoto e che il compito del progettista è proprio quello di progettare questo vuoto. Un approccio molto da architetto e poco da yacht designer. Quanto pesa quindi l’elemento mare in un progetto nautico? Pensate all’oggetto barca come qualcosa di decontestulizzato o ricercate una relazione con il mare?
Ogni progetto è “trasversale”: non esistono mondi separati, non pensiamo mai al “settore living”, al “mondo bagno” o all’outdoor etc… Per noi i progetti nascono per le persone, e non li classifichiamo ingabbiandoli in mondi o settori di appartenenza. E’ una chiusura mentale, un limite che appartiene ormai a un modo di progettare superato. La relazione con il mare è stata fondamentale: abbiamo voluto realizzare una barca proprio per questo motivo, per riappropriarci del rapporto con la natura.
Come il disegno industriale può entrare nella nautica? E come l’oggetto di design con la D maiuscola diventa il protagonista di un ambiente marino?
Sembra assurdo, ma la barca è un oggetto di design! L’abbiamo pensata come una scatola, che al suo interno contiene diversi mondi con oggetti, scopi, materiali differenti e che vengono al loro volta progettati, per adattarsi all’ambiente.
Voi nascete architetti, siete così passati dall’architettura vera e propria al disegno industriale e allo studio del prodotto. Per fare una citazione è come dire: dal cucchiaio alla città? Quali sono le differenze e le similitudini di due mondi così vicini ma con specificità così differenti?
All’interno dell’architettura vivi. Gli spazi che progetti, però, non possono essere vuoti: per essere abitati, vissuti, è necessario collocare arredi, luci, scegliere materiali, tessuti, colori etc. Architettura e design si compenetrano, per noi sono fasi complementari quando progettiamo. Sono come le parole di una stessa frase, in cui tutto è legato.
Non vi fermate mai davanti a nessuna sfida, avete deciso di partecipare all’iniziativa Benetti Design Innovation, proponendo un 65 m, motor yacht. Cosa vi ha stimolato nell’affrontare questa nuova avventura?
La curiosità, che è la più grande molla dell’umanità. Non volevamo replicare quello che avevamo già fatto: sappiamo cosa siamo in grado di fare, a noi interessa sempre il nuovo. E’ stato un impegno molto grande, che è durato due anni: prima di Benetti Design Innovation avevamo già progettato altri concept per yacht e barche, ma non ci siamo fermati al primo tentativo. La ricerca, la costanza e la curiosità ci hanno dato Jolly Roger.
Qual è stata la chiave di risoluzione che vi ha portato al progetto di Jolly Roger?
Portare un’architettura sul mare. I ponti sono grandi terrazze sul mare, le ampie vetrate “aprono” all’orizzonte, aprendo gli spazi. Per realizzare questo, abbiamo progettato delle nervature (le potenze), e a questo concetto di partenza abbiamo dato una veste estetica. Jolly Roger è “il vestito” di tanti e diversi concetti, che siamo riusciti a far convivere.
Per affrontare il progetto di Benetti vi siete ispirati a qualche yacht designer in particolare?
Progettando le nervature avevamo in mente le grandi cattedrali gotiche del nord Europa. Mentre per il grande loft ci siamo lasciati ispirare dal padiglione realizzato da Mies van der Rohe per l’Expo di Barcellona del 1929.
I giovani che si affacciano ora al mondo della progettazione seguono la tendenza, sulla scia del mondo americano, di specializzarsi sempre più in un settore; voi invece siete il perfetto esempio che se si affronta il progetto in modo flessibile e con mente aperta, si possono raggiungere ottimi risultati sia che il progetto tratti: architettura, prodotto industriale o nautica. Cosa consigliate quindi, alle generazioni future?
Innanzitutto sperimentare, per abbattere preconcetti e limiti. Il nostro consiglio è lavorare in squadra, creare team di lavoro con diverse competenze, in cui il progettista è una sorta di direttore d’orchestra, che coordina e dirige, assumendosi la responsabilità della riuscita del progetto. Senza un buon direttore d’orchestra, infatti, le note, seppure bellissime, rimarrebbero senza significato.