Lo I.O.R. (che non è l’Istituto delle Opere Vaticane, ma una classe di barche…), gli anni Settanta, gli anni Ottanta (da bere!) e altre bazzecole consimili

Porto Cervo.

Una notte, primi anni Ottanta, me ne stavo dormendo in cuccetta, su Smeralda Prima, un Peterson di 42’ fatto in composito da Jeremy Rogers, al B2, il posto barca sotto la torretta dello Yacht Club Costa Smeralda, sfinito dopo una regata lunga, quando sento delle grida che fanno: Vomita-a-mare !! vomita-a-mare!! Una, due, tre volte, e via così, all’infinito, senza tregua, nel bel mezzo della notte. Mi alzo, mi affaccio al tambuccio, e vedo in banchina un ometto di poppa al Kalamoun, il grande e velocissimo yacht a motore del Principe  Āgā Khān che inveisce contro…non si sa chi! Ecco uscire all’improvviso Fortunato, il nostromo, una specie di Primo Carnera reincarnato in marinaio, solcare la passerella, e afferrare per la collottola l’ometto e schiaffarlo a mare in men che si dica….. Beh, quello scaraventato a mare era Jepson, al secolo Giovanni Verbini. Mitico marinaio dei vari Guia di Giorgio Falck. Ponzese, “emigrato” in terra ligure, accasato alla corte velica di Falck, divenne anni dopo… l’ultimo dei Moicani. Un personaggio degno di figurare ne L’isola del Tesoro di Stevenson. Jepson, a dispetto della sua origine ponzese era conosciuto in tutto il mondo velico. Quando bazzicavo curioso come una scimmia Spencer Rigging a Cowes per il rigging di Pinta, (il babbo mi diceva sempre…Danilo! dove non ci arrivi, buttaci il cappello! …ed io cercavo di “rubare” quanto più possibile con gli occhi) Ben Bradley, il Grande Cerimoniere di Spencer subito mi chiese se conoscevo Jepson!

Quando andai a Auckland, anni dopo, in Nuova Zelanda,  da Terry Gillespie Rigging, Terry mi chiese la stessa cosa! Ovunque andavi, era noto…. Troppi giri del mondo aveva fatto, e troppe taverne alla Giamaica aveva visitato….! Grande marinaio (sebbene a suo modo) istintivo, ruvido, ma essenziale; in più con un carattere unico, irripetibile in un mondo attuale di gente iper specializzata ma senza “cuore”. A proposito di cuore (non quello della Susanna Tamaro!) bisogna che facciamo una cosa che i “colti” chiamano digressione. Mutiamo scena, ed ambiente ma sempre con l’elemento acquaceo a far da sfondo.

Gaeta, specchio d’acqua di allenamento dei fratelli incredibili del canottaggio mondiale, gli Abbagnale. Accadeva che erano anni remieri trascorsi con la barca di legno ed ormai tutti gli altri acerrimi avversari regatavano con la barca in carbonio. Quindi venne il momento che anche loro dovettero provare questa famosa barca con lo scafo in carbonio. Alle cinque del mattino, in inverno pieno, su e giù per questa baia gelata, sferzata dal grecale, i due fratelloni stavano mettendo a dura prova lo scafo tecnologico ultimo grido. Ad un certo punto il loro mentore, il loro allenatore, spazientito ed infreddolito come mai, si mise a fischiarli per richiamarli a terra per sapere come buttava con questa barca. Al passaggio di boa, finalmente, i due giganti del remo si fermano. E finalmente La Mura cerca di estorcer loro questo sospirato parere. Ma i due fratelloni sono, al solito, parchi, di parole. Preferiscono i fatti. Poco loquaci sin da piccoli. Incalza allora Mura: Insomma! Mi dite come va questa barca o no? Ed ecco il meno giovane dei due che alla fine parla: Dottò, sta barca no tene core! Ecco cosa vuol dire va dove ti porta il cuore!

Jepson aveva inventato  un idioma tutto suo, misto tra ponzese, ligure e uno slang alla Aleph di Borges, che però comprendeva solo lui e pochi altri. Aveva difficoltà talvolta a pronuciar nomi, anche quelli più semplici: a me si rivolgeva chiamandomi Tanile; a Guido Grugnola, navigatore del Rolly Go, stupendo Frers pel giro del mondo di Falck,  lo apostrofava spesso così: Quite, tu che si navigatore !! Guido mi confidò una tranche de vie della regata attorno al mondo, la Whitbread sul Rolly Go, di  Jepson che merita di non passare nel dimenticatoio. Risalendo la Patagonia una notte stellata con meno mare ma un po’ d’aria e il #3 a prua, Guido alias Quite, viene interpellato da Jepson in una duetto filosofico/esistenziale: Quite, ma che stella è quella? Non è una stella, è un pianeta, Jepson. È Giove. 30 minuti dopo: Si, ma che stella è? Te l’ho detto Jepson, non è una stella è un pianeta. 30 minuti dopo: Ma che ca…ze di stella è che ieri non c’era lì? Infatti non è una stella, è un pianeta. 30 minuti dopo: Si, però che ca…ze di stella è che si muove? Va beh, Jepson, è una stella che rispetto alle altre si muove. Fedi Quite, te l’afefi dette che era na stella!!!

Ai Caraibi, in piena estate, Jepson, con supremo sprezzo del ridicolo, non esitava a proporre a tutto l’equipaggio, per giorni interi, una pasta e fagioli bollente che lui era fermamente convinto facesse bene contro il mal di stomaco! Buffo, lunatico, sapeva stare al timone per giorni mangiando e bevendo poco, ma la barca la portava a casa. Spesso veniva da Lavagna a Porto Cervo per le regate da solo, e senza carte, abituato ad andar per occhio e per istinto. Non che fosse uno stinco di santo, come si suol dire, ma certamente non era uno “costruito” o in posa. Pane al pane, vino al vino. Come quella volta per le selezioni dell’Admiral Cup, a Punta Ala, che vide, per usare un eufemismo, il Guia con un po’ di problemi di stazza, ed allora Jepson telefona all’ingegner Falck, in ditta a Milano, dal telefono a gettoni (altro che smartphone!!) che era dentro il baretto di Punta Ala, gremito di velisti, e urla come suo solito: Incegnero (lui chiamava Falck proprio così!) c’hanno scoperto Incegnero c’hanno scoperto !! E tutti a scoppiar a ridere… Da quel giorno il motto Incegnero c’hanno scoperto! divenne il sinonimo della presenza di Jepson in porto!

Jepson era così, amava la prospettiva frontale, non era un “obliquo”. Lo potevi o detestare o esserne affascinato. D’altra parte così era anche il suo idolo, il mitico, vero,  Jepson, il finnico che calciava nelle squadre italiche come nessun altro![5] Avevo conosciuto Jepson in mezzo al mare, tardo settembre ‘78, davanti al porto del La Coruna, nel nord della Spagna. Io ed i mie compagni (di sventura!), eravamo senza vento da almeno un giorno intero, con il Fortuna Syntofil, un trimarano di 13 metri su disegno di Crowther, un australiano, allora un’autorità in fatto di pluriscafi, di Piero Nessi. Piero era un comasco, di buona famiglia, appassionato di montagna, aveva scalato il Cervino una volta, ingegnere e sfegatato velista. Anni dopo reggerà le sorti dell’ASPRONADI per diverso tempo. Se la memoria non mi gioca brutti scherzi, lui e il fratello avevano un’impresa che aveva qualcosa a che fare coll’alluminio. Questo lo dico perché il trimarano se l’era costruito da lui, in alluminio grezzo, senza nessuna verniciatura. Piero avrebbe poi partecipato alla prima edizione della Route du Rhum. In quella regata partì anche un altro italiano, Paolo Martinoni sempre con un altro trimarano, lo Star Point. Il tri, tanto per dare un’idea di come si viaggiava allora, era senza nessun motore (neanche un fuoribordo), e quindi senza alcuna energia a bordo! Le luci di via erano quelle a batterie che mettevi nei pulpiti con una clip di plastica. Si fa prima a dire quello che avevi a bordo di quello che non avevi.

C’era una bussola, giusto per sapere dove dovevi puntare. Un sestante (che sapeva usare solo Piero). Un fornellino con la bombola campinggaz. Non c’era WC di nessuna specie (a buon intenditore poche parole). Il bugliolo era il nostro Baby Blake! Una radio Grunding Satellite, color argento,  con cui speravi di sentir uno straccio di bollettino. Il tender era un gommoncino di quelli presi alla Standa e portato con i soli remi. Sembrava un cartoon di  Pippo, Pluto e Paperino. Pochissime carte e pochissimi portolani per un viaggio che ci portò da Alicante, in Spagna a Trinité sur Mer, una deliziosa isoletta in Bretagna, per un mese di navigazione da “nave dei folli”, a fine estate. Cuccette zero…..o meglio…facevi finta di avere le cuccette in quanto nella svasatura tipica dello scafo centrale di un trimarano si formavano delle nicchie che potevi scambiare, con un po’ di buona volontà,  per cuccette. A proposito di riposo, dalla deriva centrale, poi, dovevi star attento perché essendo male sigillata entrava acqua abbastanza facilmente, il che non ti “cullava” di certo. Ca va sans dire che non c’era salpancora di sorta. Quando dovevi tirar su l’ancora andavi a mano dal primo all’ultimo metro. L’unica meraviglia tecnologica dell’epoca che avevamo era un Mustafà, un timone automatico (si fa per dire…) dell’epoca…

Poi non posso dimenticare il menu di bordo!

Si iniziava il primo giorno di navigazione con un risotto con qualcosa; il secondo giorno quel risotto, ricotto con la pentola a pressione, veniva addizionato con un altro ingrediente, metti i piselli; il terzo giorno con un altro ancora, fagiolo ad esempio, e così via….al quinto o sesto giorno quello che mangiavi (anche volentieri, debbo confessare,  vista la fame!) era una poltiglia abominevole! Credo che sia stato uno dei primi tentativi per sperimentare la cucina molecolare che tanto va di moda oggi! Insomma, per tornare a Jepson, il caso vuole che fermi come dei turaccioli al largo del porto, ecco passare una barca a vela! Miracolo! Ci si accendono le speranze di entrare in porto, e di mangiar qualcosa di decente,  visto che noi in bonaccia piena non riuscivamo neanche a far filare la barca ad un nodo! Chi si ferma a darci un traino? Il Guia  con Jepson che ci accoglie col suo solito, ma che allora mi sorprese non poco, grido di guerra: Vomita-a-mare! Forse m’aveva letto nel pensiero. Io di vomito me ne intendevo abbastanza. Ho sofferto in mare come forse poche altre persone. Ma la passione era tanta, smisurata.